Lettera aperta “Ora l’unità. Per il Partito Comunista in Italia”

Dichiarazione di Marco Rizzo, segretario generale Partito Comunista (Italia).

Abbiamo ricevuto in questi giorni, come tutti gli altri partiti comunisti in Italia, una Lettera Aperta inviataci – a nome dei circa 1.000 aderenti all’Appello “Ora l’unità. Per il Partito Comunista in Italia” – da un gruppo di quadri operai delle grandi fabbriche italiane, da giovani, studenti, lavoratori e lavoratrici, da intellettuali marxisti e dirigenti comunisti di diverse organizzazioni.

Questa Lettera chiede a tutti noi, ai partiti comunisti italiani, ai loro gruppi dirigenti, alle loro basi militanti, di avviare un processo di unità dei comunisti, a partire dalla messa in campo di immediate lotte comuni.

Il Partito Comunista, apprezzando lo spirito e le parole della Lettera Aperta, risponde positivamente alla sua richiesta unitaria e si dichiara disponibile ad un primo ed immediato confronto con i gruppi dirigenti degli altri partiti comunisti e delle altre esperienze comuniste italiane.

Che cosa, di questa Lettera Aperta, ci ha convinti a questo nostro approccio unitario?

La sincerità, lo slancio ed insieme la “ratio” delle sue parole.

Siamo certi che la sincerità e lo slancio che segnano fortemente di sé questa Lettera provengano dai tanti giovani che hanno aderito all’Appello “Ora l’unità. Per il Partito comunista in Italia” e che poi ne hanno inviato ai partiti comunisti una sintesi nella forma della Lettera Aperta.

Come siamo certi che la “ratio” politica della Lettera sia il frutto della vasta e prestigiosa presenza di intellettuali e dirigenti comunisti che, dopo aver aderito all’Appello, l’hanno sottoscritta e a tutti noi inviata.

Ed è questa motivazione, questa ragione politica a convincerci della bontà della proposta unitaria.

I compagni e le compagne che hanno sottoscritto la Lettera Aperta hanno con forza e lucidità rimarcato quanto sta quotidianamente sotto i nostri occhi ma che spesso sfugge alla vista di troppi, a volte persino alla vista di alcune aree comuniste:

– il pericolo incombente di una guerra mondiale scientemente organizzata e sospinta dagli USA, dalla NATO, dall’UE e dal fronte imperialista internazionale;

– una nuova ed estremamente acutizzata aggressività politica e militare imperialista contro la Russia e la Repubblica Popolare Cinese che è alla base della spinta a questo progetto di guerra mondiale;

– una nuova e socialmente drammatica, per la classe operaia e i popoli del nostro continente, torsione imperialista delle politiche dell’Ue e antipopolari;

– una spinta oggettiva che attraversa l’intero arco delle forze partitiche parlamentari e le sospinge a farsi “il partito unico” degli USA, della NATO e dell’UE in Italia e che si fa materia politica per la costituzione del governo Draghi, l’Esecutivo che sta svendendo a Bruxelles il futuro delle prossime generazioni italiane per ottenere quel cappio monetario che continuano a chiamare “prestiti” o “aiuti” dall’UE;

– un uso spregiudicato e discriminatorio della pandemia da parte del Governo Draghi, con una evidente prova generale di limitazioni serie delle libertà costituzionali per qualunque vera opposizione nel Paese;

– la drammatica contraddizione tra tutto ciò e l’assenza pressoché totale di un’opposizione di classe e di massa;

– la contraddizione tra il vasto dominio capitalista e la crisi profonda e la polverizzazione del movimento comunista in Italia.

Come ci convincono pienamente le parole d’ordine, che sono nostre, che facciamo totalmente nostre, che la Lettera Aperta fa conseguire a tutto ciò: fuori l’Italia dalla NATO! Fuori la NATO dall’Italia! Fuori l’Italia dall’Euro e dall’UE!

È a partire da queste, cogenti, questioni che il PC accoglie la proposta del progetto di unità dei comunisti su basi politiche e teoriche affini, quale prerequisito essenziale, come asserisce la stessa Lettera Aperta, per l’avvio di un processo unitario e la costruzione di un Partito Comunista in Italia all’altezza dei tempi e dello scontro di classe.

Il movimento comunista mondiale, guidando circa un quinto dell’intera umanità, vive oggi una grande e fulgida fase di rilancio e la vive al cospetto di una crisi storica profondissima, sia di progetto politico ed economico che di prestigio, del capitalismo mondiale.

Ciò ci conforta e da ancor più senso alla nostra battaglia politica in Italia.

Ma non rimuove il fatto che il movimento comunista italiano versi, per sue colpe lontane e vicine, in una crisi profonda.

Una crisi dalla quale i comunisti potranno uscire solo con la ricollocazione al centro delle cose, sia sul piano teorico che della prassi, del conflitto di classe e della ricostruzione dei legami di massa. E per questi obiettivi, l’unità dei comunisti su basi politico-teoriche affini è fattore decisivo.

Molto, tutti noi, possiamo aver sbagliato, nelle nostre, diverse esperienze da comunisti. Ma per la passione e il tempo di vita che tutti abbiamo messo nel difficile obiettivo di ricostruire, in Italia, un movimento comunista degno di questo nome, possiamo anche sperare che “la storia ci assolverà”.

E ancor più ci assolverà se saremo capaci, oggi, di riunire le fila, di unirci, di dare una speranza e un nuovo punto di riferimento organizzato all’ancora vasta diaspora comunista italiana priva di tessera e partito, di riconsegnare alla “classe” un unico, più forte, coeso, partito comunista!

Scriveva nel 1957 il grande poeta comunista Nazim Hikmet, nella sua splendida poesia intitolata “Della Vita”: “Dovunque tu sia/ in qualunque circostanza tu sia/ devi vivere come se mai tu dovessi morire”.

E, parafrasando Hikmet, noi che oggi vogliamo unirci per ricostruire un più forte partito comunista in Italia, dobbiamo batterci, sinceramente impegnarci, come se questo grande obiettivo fosse possibile, vicino ad essere conquistato!

Le elezioni del 18 aprile 1948. Quando il Fronte Popolare perse e vinse la DC

Quella domenica del 18 aprile 1948 le Sinistre che avevano combattuto contro il nazifascismo e costruito l’Italia libera persero in malo modo, proprio come in questa tornata elettorale del 13 e 14 aprile scorsi. Quali che siano le cause della sconfitta di oggi, quelle del 18 aprile 1948 erano davvero da imputare alla paura della Russia. Fu una campagna elettorale durissima, combattuta in città ed in ogni piccolissimo paesino. La propaganda della DC contro il Fronte Popolare Democratico, composto da comunisti e socialisti, sotto il simbolo di Garibaldi, fu improntata sullo scontro tra libertà e capitalismo da una parte (la DC) e totalitarismo-statalismo comunista dall’altra. E tanto fece la chiesa, apertamente a favore della Democrazia cristiana. Fu una vittoria schiacciante. La Dc alla Camera ottenne il 48,5% dei voti; mentre il Blocco del Popolo solo il 31%. Detto in cifre, quasi 13 milioni di voti, contro i poco più di otto dei socialcomunisti. Qui di seguito, proponiamo ai nostri navilettori una intervista di Liberazione del 12 aprile 1998 ad Armando Cossutta.

Le elezioni politiche del 18 aprile 1948, con la propaganda anticomunista realizzata secondo le tecniche ossessive di una vera e propria guerra psicologica, e con la Dc che conquista la maggioranza assoluta (più del 48 per cento con quasi 13 milioni di voti) mentre le sinistre (Pci e Psi uniti nel Fronte democratico popolare) si fermano al 31 per cento con poco più di 8 milioni di voti.
Allora, compagno Cossutta, cosa è stato quel 18 aprile dal quale ci separano cinquant'anni?
Le elezioni del 18 aprile non sono l'unico evento dell'anno 1948; anche se esso è più vicino alla nostra memoria storica, la sua portata fu tale da consentirci, oggi, di collocarlo tra gli accadimenti internazionali dei quali il 1948 è carico. Basterà ricordare per lo scacchiere europeo, o quello contiguo, la crisi in Cecoslovacchia, la rottura Urss-Jugoslavia, la divisione in due della Germania, la nascita di Israele. Quel risultato elettorale determinò l'origine, nel nostro paese, della Costituzione "materiale" ad appena tre mesi dalla approvazione della Carta costituzionale (la "Costituzione formale" che, per tanti aspetti di riforma democratica presupposti dal suo diritto, fu messa in frigorifero dai governi democristiani).
L'altro, e connesso, aspetto della Costituzione materiale fu la sensibile riduzione della nostra sovranità nazionale, perché l'Italia fu di fatto "occupata" dagli Usa. Non ci fu una invasione militare (anche se, come risulta da recenti acquisizioni storiografiche, una simile ipotesi fu studiata al Pentagono per l'eventualità di una vittoria del Fronte popolare). Ma già da allora e quindi successivamente furono adottate, con il pretesto della "diga anticomunista" decisioni destinate a pesare per lungo periodo nella nostra situazione politica. Pensiamo alle origini di "Gladio" e agli accordi segreti per la concessione di basi militari agli Usa. Tutto poté avvenire perché si assunse come fonte di legittimazione non la garanzia del quadro costituzionale ma l'identificazione politica tra la leadership degli Stati Uniti e la difesa del "mondo libero" per usare una espressione di quei tempi.
Il 1948, quindi, come anno di periodizzazione?
Senz'altro, ma a condizione di tenere presente un punto-chiave; e cioè che l'origine di tutti gli eventi mondiali del 1948 deve essere ricercata nell'anno precedente. L'anno di cerniera è il 1947. È in quell'anno che avviene la rottura con la precedente fase, quella dell'intesa tra le grandi potenze antifasciste nella guerra contro Hitler e Mussolini. Risale infatti al '47 la elaborazione della dottrina americana dei popoli liberi, la cosiddetta dottrina Truman, che rivendicando una specifica funzione antisovietica pone fine alla collaborazione tra le nazioni alleate e vincitori contro il nazifascismo.
Ma su quell'intesa c'è un'antica e superficiale querelle per cui Roosevelt, debilitato dalla malattia, non avrebbe avuto la capacità per resistere alle richieste di Stalin. Riprendo questo argomento perché adesso la storiografia revisionista lo fa suo conferendogli una finta nobiltà: quella di un Roosevelt che, in quanto democratico, crede alla parola e alle promesse di Stalin di organizzare libere elezioni nei paesi dell'Europa orientale...
L'intesa aveva attraversato momenti di tensione e di precarietà già durante il corso della guerra. Pensiamo alla contestazione sovietica sul ritardo, da parte degli angloamericani, nell'apertura del secondo fronte... Chi ripropone ancora oggi le tesi cui tu ti riferisci finge di dimenticare che non c'erano soltanto Roosevelt e Stalin. Come notò uno storico del valore di Ernesto Ragionieri sia a Teheran che a Yalta i "Tre Grandi" fecero ripetuti riferimenti alla volontà dei popoli che aspiravano ad una nuova organizzazione dei rapporti internazionali. Questo era all'origine lo spirito di Yalta. Questo doveva essere il fondamento dell'Onu. Ma il discorso pronunciato da Churchill a Fulton, nel marzo 1946, alla presenza di Truman, fu il proclama della rottura dell'unità antifascista. Con una efficace, sebbene dolorosissima, configurazione plastica il leader britannico parlò di un "sipario di ferro" che da quel momento avrebbe diviso l'Europa da Stettino a Trieste.
Visto con il senno del poi il carattere irreversibile di quella rottura, anche per il suo fondamento sul possesso americano della bomba atomica, doveva essere chiaramente avvertito. Come mai non lo fu, come mai non fu capito sino in fondo dalla sinistra italiana?
I principali esponenti della sinistra italiana, compresi i dirigenti del Pci, non credettero, o non vollero rassegnarsi a credere, al carattere definitivo di quella rottura. Quando nel 1947, subito dopo il viaggio di De Gasperi a Washington, comunisti e socialisti furono cacciati dal governo di cui facevano parte dal 1944 (i socialisti non continuativamente), nel paese non vi fu alcuna reazione. Eppure l'estromissione delle sinistre era avvenuta in forma immotivata e questo doveva far riflettere. Invece non vi fu alcuna manifestazione, né grande né modesta, né spontanea né organizzata, nemmeno nelle aree, nelle città (pensiamo a Sesto S. Giovanni dove io ero allora segretario di un Pci con 18 mila iscritti) a prevalente presenza della sinistra. Ho riflettuto molto su questa situazione, vera e propria anomalia, dal momento che la sinistra aveva allora una forte capacità di mobilitazione.
Alla domanda sul perché non si reagì contro quella cacciata che avrebbe dato avvio alla discriminazione anticomunista per un periodo pluridecennale, mi sento di rispondere che fu Togliatti a non volerlo. ..
...a proposito, alcuni storici hanno sostenuto che la debolezza della strategia comunista di allora nasceva dalla convinzione di Togliatti che la Dc rappresentasse una forza potenzialmente progressiva nella società italiana.
Così dicendo si fa torto a Togliatti perché si diminuisce il grande contributo che egli, con il Pci, ha dato alla costruzione della democrazia nel nostro paese. Certo, Togliatti volle evitare una pericolosa spaccatura con la Dc nel corso del lavoro unitario della Costituente poi concluso il 1° gennaio 1948 con la promulgazione dello storico testo costituzionale che recava le tre firme espressive, esse stesse, dell'intera epoca: quelle del liberale De Nicola, Capo dello Stato, del cattolico De Gasperi, Capo del governo; del comunista Terracini, Presidente dell'Assemblea Costituente. Detto questo si può aggiungere che forse Togliatti non volle anche perché riteneva che la divisione si sarebbe ricomposta e che a scadenza ravvicinata tre partiti di massa (come allora si diceva di democristiani, comunisti e socialisti) sarebbero tornati a governare insieme. E forse questa era su scala mondiale anche l'opinione di Stalin che dimostrava di non voler accettare come definitiva la nuova situazione e di ritenere ancora possibile la ripresa della collaborazione fra gli Stati vincitori della guerra. Ed invece era incominciata la nuova guerra, la cosiddetta guerra fredda e fredda per modo di dire perché fu, in verità, densa di conflitti aspri, anche militari, di acuti contrasti economici, di furibonde liti diplomatiche. Non sarebbe scoppiata un'altra guerra mondiale ma ad essa ci si avvicinò più volte. La divisione del mondo in blocchi contrapposti nasce allora: ma non ve ne fu consapevolezza. Fu un errore grave, credo, di sottovalutazione della realtà.
Torniamo al 18 aprile. Il Fronte popolare ottenne in percentuale quasi nove punti in meno rispetto a quanto, nelle elezioni del 1946, comunisti e socialisti avevano messo insieme presentandosi separatamente. Ci furono, inoltre, risultati differenti tra nord e sud. Si può parlare di errori di sottovalutazione?
La risposta del sud avvenne, in parte rilevante, sul piano sociale, cioè su quello dei tanti nodi storici irrisolti (lo sono anche oggi!) della questione meridionale. Le sinistre arrivarono alle elezioni, del tutto impreparate allo scontro, forse senza la completa percezione del clima di incubo che sarebbe stato creato sullo scenario elettorale. In ogni caso vi giunsero convinte di un successo che era fuori della realtà, mentre quella convinzione veniva utilizzata ed enfatizzata dalla Dc per proporsi come unico argine alla rovina del paese. «Bisogna vincere, costi quel che costi» aveva detto De Gasperi. La stessa formazione del Fronte popolare (voluto dal Psi più che dal Pci) fu un errore, perché rendeva oggettivamente più difficile un'azione distinta (non separata né tantomeno contrapposta) dei socialisti, della quale viceversa c'era bisogno sia per contrastare l'avvenuta scissione saragattiana e sia per tentare di ottenere adesioni da alcune frange del mondo cattolico, accecato dall'anticomunismo ma non del tutto disponibile a seguire una politica antioperaia.
Tu ritieni un errore la costituzione del Fronte popolare. Torniamo, allora, al "cruciale" 1947. Come mai a un anno dalla scissione socialista di palazzo Barberini non se ne avverti il carattere, per così dire, strategico?
Pesò anche in questo caso la sottovalutazione, della quale abbiamo già parlato, della rottura dell'unità antifascista. Non si comprese che la scissione in casa socialista era stata operata da Saragat per dare vita a una formazione democratica nettamente contrapposta ai comunisti. Con essa la Dc acquisì un alleato prezioso perché riuscì a darsi una copertura verso una certa sinistra, bilanciando così la sua scelta di fondo verso il mondo liberale e conservatore. Si costituiva la premessa per quell'intesa quadripartita fra la Dc e i partiti laici (Psdi, Pri, Pli) che doveva governare l'Italia a lungo con una formula impropriamente definita moderata, di tipo centrista, ma in realtà ben più che moderata, essendo essa stessa interprete ed esecutrice delle scelte volute dai poteri economici forti ormai ricostituitisi dopo la fase incerta dell'immediato dopoguerra. Si trattava di un blocco sociale e politico compatto, pur nelle sue interne differenziazioni, fortemente unito e determinato nel favorire la riorganizzazione capitalista, sulla base di una logica privatistica e sostanzialmente antioperaia, in spregio ai principi da poco solennemente sanciti nella Carta costituzionale. Veniva ripudiato il patto democratico e antifascista, ad esso si sostituiva e si contrapponeva un patto anticomunista, oggettivamente e soggettivamente antiriformatore, anzi dichiaratamente restauratore, protetto e foraggiato dai più potenti gruppi capitalistici, ed ispirato, manovrato, guidato dal grande alleato d'oltreoceano, gli Stati Uniti d'America.
Nella determinazione di questo risultato fu abilmente giocata la presunta minaccia sovietica. La capacità della propaganda anticomunista fu di rendere verosimile e incombente tale minaccia. Come si poté credere a simile eventualità se l'Urss non era intervenuta in Grecia in appoggio alla sollevazione comunista?
L'Urss non intervenne a sostegno dei partigiani di Marcos perché la Grecia era sotto la protezione anglo-americana. L'Italia era sotto la protezione dell'unica potenza atomica di allora, gli Stati Uniti. E che l'Urss non avesse alcun disegno di intervento era fra l'altro provato dal ben noto incontro a Mosca fra Pietro Secchia, allora vice segretario del Pci e lo stesso Stalin che lo ricevette insieme a Molotov e a Beria. Secchia racconta che alla sua domanda circa la possibilità di un intervento o di un aiuto sovietico nel caso si fosse giunti ad una fase di tipo prerivoluzionario, Stalin rispose muovendo negativamente per tre volte il dito indice, e accompagnando la mossa già di per se molto significativa con un secco niet. Ma in quel momento, nel 1948, molti credettero alle. menzogne sparse copiosamente sui giornali e dai pulpiti. Fu facile, così, al governo democristiano accettare, anzi ricercare, l'intervento americano, che si manifestò anche con lo scorrazzare delle navi di guerra Usa nei nostri mari.
Si può dire quindi che i programmi delle forze politiche in relazione ai tanti problemi del paese, da poco uscito dalla guerra, passarono in second'ordine e che la propaganda travolse la politica?
La campagna elettorale fu in effetti un capolavoro della propaganda anticomunista. I manifesti della Dc erano terrificanti rispetto al pericolo della vittoria dei comunisti (non solo questi avrebbero portato alla dittatura sopprimendo le libertà democratiche, ma avrebbero tolto la casa, requisito la vacca e la terra e avrebbero messo persino in comune le donne); mentre erano suadenti rispetto alle prospettive dipinte di rosa in caso di una propria vittoria, con promesse di aiuti alimentari ed economici da parte americana, cui erano particolarmente sensibili le orecchie e le menti di una popolazione stremata materialmente e moralmente dalla guerra e dalla paura della miseria.
La Chiesa intervenne massicciamente, persino con la scomunica che Pio XII volle comminata ai comunisti e agli amici dei comunisti, non risparmiando nemmeno la libertà di lettura (di libri, periodici eccetera che sostenevano la "dottrina o la prassi del comunismo"). Dall'America si fece sentire il cardinale Spellman con una dichiarazione, resa alla presenza di Truman e diffusa in ogni angolo del nostro paese; gli italiani venivano invitati a respingere lo «statalismo contro Dio e la Russia sovietica» e a scegliere l'America. In sintesi gli avvenimenti internazionali furono utilizzati per accentuare la necessità della presenza americana di fronte alle pretese minacce di invasione dell'Urss, che aveva occupato i paesi del centro Europa, dopo averli liberati dal dominio nazista, che aveva provocato la crisi cecoslovacca con la defenestrazione del governo democratico di Benes e Masarik , e che aveva costituito il Comiriform. Accadde così che in vastissimi ceti l'eventuale vittoria del Fronte popolare, cioè dei "socialcomunisti", fu sentita e temuta come vera e propria invasione sovietica. Se, pensando al 18 aprile si deve tecnicamente parlare di "elezioni politiche" (per il Senato e la Camera dei deputati) nella sostanza si trattò di un vero e proprio referendum: per vivere liberi con l'America e per impedire ai «cosacchi di arrivare con i loro cavalli a piazza San Pietro».
Qual è, dunque, a mezzo secolo di distanza il tuo giudizio conclusivo sul 18 aprile e sugli eventi che lo seguirono?
Certo, la delusione per la sconfitta fu enorme. Sembrò infranta una grande speranza che animava consistenti e forti masse popolari. Ma alla frustrazione, amara, si accompagnò una fortissima voglia di rivincita. Si spiega anche così la forza impetuosa del moto di lotta che si determinò pochi mesi dopo, il 14 luglio, per l'attentato contro Palmiro Togliatti: un moto di proporzioni enormi, uno sciopero che paralizzò il paese e che vide riempirsi le città di cortei e di manifestazioni imponenti. Ricordo a tale proposito la frase con cui il leggendario dirigente dei comunisti milanesi, Giuseppe Alberganti, commentò lapidariamente in piazza del Duomo, di fronte a una massa grandiosa di lavoratori, il valore di quelle due date: «Il 18 aprile ci siamo contati, il 14 luglio ci siamo pesati». Pochi anni dopo, nelle elezioni del 7 giugno 1953, le sinistre batterono la Dc sulla legge truffa e Alcide De Gasperi fu costretto a ritirarsi. E da allora, dal 18 aprile e dal 14 luglio 1948, i comunisti aumentarono di peso e di numero. L'Italia di oggi deve molto alla lungimiranza di Togliatti e del Pci, quando, nel 1947, vollero e seppero scegliere la strada, se pur difficile e lunga, dell'attuazione della Costituzione e della lotta delle masse popolari nell'alveo costituzionale.
Liberazione 12 aprile 1998

Nuovo libro del compagno Peppe Verduci

“Frammenti di storia e ricordi”, edito da Pellegrini e patrocinato dall’Amministrazione provinciale di Cosenza, è il titolo del nuovo libro di Peppe Verduci, presentato al pubblico a novembre scorso nel salone di Rappresentanza del Comune di Cosenza. All’incontro, moderato dal giornalista Eugenio Furia, ha preso parte Giuliano Ricca, Segretario del Circolo cittadino di Rifondazione; il sindaco Salvatore Perugini; il giornalista Bruno Pino che ha collaborato alla stesura del libro e lo stesso Autore. Nel corso della manifestazione sono intervenuti pure Mario Oliverio, presidente della provincia di Cosenza; Angelo Broccolo, segretario provinciale del PRC; e Franco Iacucci, vice sindaco di Aiello Calabro.
Il volume, come già in altre pubblicazioni del “compagno” Peppe Verduci, raccoglie memorie e particolari avvenimenti vissuti dall’autore che riguardano la storia politica e sociale di Aiello Calabro nell’immediato secondo dopoguerra.
«Quello di Peppe – scrive Bruno Pino nella prefazione – non è e non vuole essere un libro che si alimenta di fonti documentali, ma più semplicemente, è una viva testimonianza dell’autore – permeata dalla passione, da emozioni e sensazioni personali – resa a distanza di decenni, e relativa ad episodi accaduti all’interno di una piccola comunità del sud in un certo periodo storico in cui, uscita dalla devastante esperienza della seconda guerra mondiale, l’Italia s’incamminava, attraverso spinte ideali contrapposte, a diventare un paese civile e democratico».
«Verduci – continua Pino – oltre a narrare con prosa semplice e scorrevole, del suo amore per il Comunismo, dell’attività spesa per il Partito, delle lotte, dei rapporti e dei contrasti con la Dc, tratteggia alcuni uomini di valore che nella Seconda Guerra Mondiale scelsero di essere Partigiani nella Resistenza come “l’eroe di Aiello Calabro” Geniale Bruni, al quale era intitolata la locale sezione Pci; e quello di tanti altri antifascisti che si sono sacrificati per i valori fondanti della democrazia. Ma soprattutto, Verduci, delinea una figura interessantissima della vita politica locale e poi internazionale. Ovvero quella di Nando Aloisio (Aiello C. 1923 – Buenos Aires 1975), fondatore del Pci e della Camera del Lavoro di Aiello, attivista nel 1946 nella campagna in favore della Repubblica in occasione del Referendum che nel 1946 diede all’Italia le sue attuali Istituzioni democratiche; e promotore nel 1947-48 delle lotte dei contadini per l’occupazione delle terre; poi emigrato in Argentina, e lì, nella terra dei Gauchos, sindacalista dell’Inca-Cgil e martire del peronismo, qualche mese prima del golpe del 1976».
Peppe Verduci, classe 1921, poeta e scrittore comunista oltre a questo lavoro, ha pubblicato, nel 1999, il libro “Memorie di Lotta – Aiello Calabro 1943 – 1970” (edito dall’Icsaic), in cui raccoglie le esperienze della sua militanza comunista e dove mette a fuoco le problematiche di una comunità che lo ha visto crescere e maturare, insieme ad una generazione di giovani dediti alla costruzione di una società improntata ai veri valori di una democrazia fattiva e concreta e non solo formale. Il libro – per il successo ottenuto – è stato poi rieditato da Pellegrini nel 2002.
Sempre con la Casa Editrice Pellegrini, ha pubblicato nel 2003 “Poesie”; e nel 2004 “Aiello Calabro – Appunti sparsi”, Sono invece del 2005 “Stralci letterari” e “I miei dieci anni a Lungro”.