Lago ricorda il carabiniere Giovan Battista Aloe

Fu vittima insieme ad altri sei militari dell’Arma nell’imboscata di Passo Rigano avvenuta a Palermo nel 1949.  Per il settantesimo anniversario della morte, gli sarà intitolata la Caserma locale.

LAGO, CS – Aveva solo 22 anni Giovanni Battista Aloe quando muore in un agguato a Palermo insieme ad altri sei carabinieri. Quell’episodio tragico, avvenuto la sera del 19 agosto 1949, quasi settanta anni fa, è conosciuto come l’eccidio di Passo Rigano. Fu una bomba a far saltare in aria un autocarro dei Carabinieri del battaglione mobile “Palermo”. Stavano recandosi alla caserma di Bellolampo perché era stata presa d’assalto dalla banda di Salvatore Giuliano. Già anni prima, a dicembre 1945, quel presidio dell’Arma aveva subìto altri attacchi dallo stesso bandito.

Quella sera d’agosto, i militari sono in convoglio mandati come rinforzi a Bellolampo. Sono una sessantina di Carabinieri e tra questi c’è Giovan Battista Aloe. Perlustrano l’area ma non c’è nessuna traccia del gruppo comandato dal cd re di Montelepre, solo qualche bossolo a terra ma niente di più. Sulla strada del ritorno, però, li aspetta la brutta sorte. C’è una grossa mina che viene azionata al passaggio degli automezzi.

Sono le 21.30. L’ultimo camion, con 18 carabinieri a bordo, salta in aria. Si contano subito sei carabinieri morti e una decina di feriti gravi, uno dei quali morirà il giorno dopo all’ospedale militare di Palermo. Si chiamavano: Pasquale Marcone(Napoli), Armando Loddo (Reggio Calabria), Gabriele Palandrani (Ascoli Piceno), Sergio Mancini (Roma), Antonio Pubusa (Cagliari), Ilario Russo (Caserta) e, appunto, Giovanni Battista Aloe.

La notizia del sacrificio del giovanissimo carabiniere, come tutte le brutte notizie, arriva subito a destinazione. Il papà l’apprende dalla radio. Tutta la comunità di Lago, suo paesino d’origine, in provincia di Cosenza, è profondamente sgomenta. Fernanda, una delle sorelle del carabiniere, all’epoca aveva solo 5 anni, ma ricorda bene lo straziante dolore della famiglia. “In quei tempi, subito dopo la seconda guerra mondiale – così raccontaagli alunni della III A del plesso di Lago dell’Istituto “Mameli-Manzoni” di Amantea che hanno raccolto testimonianze per una ricerca dettagliata sull’avvenimento -, c’era molta fame e Giovan Battista per non essere di peso alla già numerosa famiglia (sette sorelle e un fratello) decise di arruolarsi nell’Arma. Era un giovane molto voglioso di farsi una propria famiglia. Si era arruolato all’età di 22 anni. Dopo l’ufficialità della notizia, solo papà andò a Palermo, accompagnato dai miei zii. Mia madre non poté partecipare perché ebbe uno shock tremendo, per la perdita dell’amato figlio, che gli impedì di presenziare alle esequie. Ho vaghi ricordi del suo funerale celebrato a Lago: ricordo una moltitudine di persone che in modo silenzioso rendevano omaggio alla salma di Giovan Battista e che il via vai continuò a casa anche nei giorni seguenti.

I funerali si svolsero nella Cattedrale del capoluogo siciliano ed in seguito la salma di Aloe venne traslata a Lago dove riposa nella cappella di famiglia.

La memoria di quel sacrificio è sempre viva nella comunità. Nel 2009, a distanza di 60 anni, la famiglia aveva inteso affiggere sulla strada a lui intitolata una lapide. Anche l’Amministrazione comunale, in passato, aveva apposto una lapide all’ingresso della Casa Comunale, per ricordare “il sacrificio del carabiniere Giov. Battista Aloe che il 19.8.1949 immolando in Palermo la sua giovane vista volle che anche nella lotta contro il brigantaggio in nome di Lago fosse tra i primi a rifulgere”.

Ad aprile 2017, su decreto del Presidente della Repubblica, ad Aloe e agli altri sei carabinieri vittime della strage viene conferita la medaglia d’oro al merito civile. Aloe, è scritto nella motivazione: “Con eccezionale coraggio e ferma determinazione, unitamente ad altri militari, non esitava a raggiungere una stazione dell’Arma proditoriamente attaccata da un gruppo di malviventi appartenenti a una tenutissima banda armata. Al termine dell’intervento, sulla strada del ritorno, veniva mortalmente investito dalla violenta deflagrazione di un ordigno azionato dai malviventi al passaggio dell’autocarro su cui viaggiava. Splendido esempio di altissimo senso del dovere e di elette virtù civiche, spinti fino all’estremo sacrificio”.

Il 5 giugno ricorre l'anniversario della fondazione dell'Arma dei Carabinieri.
Nel post si ricorda il sacrificio di alcuni Carabinieri, in particolare di Giovan Battista Aloe di Lago morto in un agguato a Palermo insieme ad altri colleghi, nell'agosto del 1949.

RASSEGNA STAMPA

Annotazione personale

Nella giornata in cui ricorre il 205esimo anniversario della fondazione dell’Arma dei Carabinieri, oltre a ricordare il carabiniere Aloe, ci piace ricordare anche un nostro prozio, pure lui carabiniere, di Aiello Calabro, che nel corso del suo lavoro, una mattina di aprile del 1968, a Firenze, venne ferito durante un tentativo di rapina in banca. Zio Ernesto non fu il solo della famiglia Guzzo Foliaro a far parte dell’Arma: insieme a lui anche i fratelli Amedeo ed Eugenio.

Qui di seguito, il ritaglio de La Stampa del 30 aprile 1968, pag. 4 che parla di Ernesto Guzzo.

Monongah, tragedia dell'emigrazione italiana. Vi perirono anche tre minatori di Lago (Cs)

Le immagini della tregedia

TRA le centinaia di minatori morti a Monongah, West Virginia, il 6 dicembre 1907, ci sono una quarantina di calabresi. Secondo le cifre ufficiali dell’epoca, le vittime totali della sciagura sono 361, di cui 171 italiani. In seguito, si viene a sapere che probabilmente i morti si avvicinano a mille (ma la cifra è controversa e per i necessari approfondimenti vi rimandiamo alle ricerche del prof. Tropea), la metà di origine italiana, provenienti da Abruzzo, Molise, Campania e appunto Calabria. I paesi da cui sono emigrati, ricordati in occasione del centenario, nel 2007, sono Caccuri, San Giovanni in Fiore, Carfizzi, Falerna, Guardia Piemontese, Strongoli, Castrovillari, Gioiosa Ionica, San Nicola dell’Alto.

Ma anche Lago, paesino in provincia di Cosenza, è ora incluso nell’elenco. Quel venerdì 6 dicembre, nella miniera della città del West Virginia interessata da una serie di forti esplosioni, muoiono tre emigrati di Lago. Un tributo di sangue che si va ad aggiungere alle storie già raccontate. Si chiamano Francesco Abate (Abbate), 42 anni, Carlo Giovanni, 19, e Giuseppe appena 14enne.

La tragedia per anni dimenticata viene ricostruita, analizzata e raccontata grazie allo studio di ricercatori e appassionati come Joseph Tropea della George Washington University che con perseveranza continua la sua ricerca dei parenti delle vittime. È soprattutto merito suo se si è riusciti a contattare in Italia figli e nipoti di quei poveri disgraziati. Nell’opera di divulgazione di questa triste pagina della più grave tragedia sul lavoro per gli emigrati italiani, anche un giornale come Gente d’Italia ha fatto la propria parte. Una pagina triste della storia dell’emigrazione italiana. “Come Marcinelle. Più di Marcinelle”.

Le bare dei minatori

Nei giorni 4 dicembre, giorno di S. Barbara patrona dei minatori, e 5 dicembre del 1907, giorno in cui viene anticipata la celebrazione di S. Nicola, la miniera di Monongah, dalla quale si estrae carbone ed ardesia, è rimasta chiusa. Il paesino dei monti Appalachi, tremila anime, ha avuto due giorni di festa per tutti. Secondo la ricostruzione del prof. Tropea, la Compagnia che gestisce la miniera, nei giorni di chiusura per risparmiare ha spento gli aereatori e di conseguenza il gas grisou si è accumulato nelle gallerie. Quel venerdì 6 dicembre, al ritorno al lavoro dei minatori, è bastata una scintilla per far saltare tutto in aria. Poco prima delle 10.30, due esplosioni devastano la miniera. Il boato si sente a 12 chilometri di distanza. Un terremoto che sconquassa il ventre della miniera e fa tremare la terra circostante. Subito dopo, è un coro di grida, di disperazione. Dalle baracche in cui vivono i minatori e le loro famiglie, mogli e figli, parenti, ed i minatori degli altri turni, si precipitano verso il luogo dello scoppio. Un fumo denso e aspro fuoriesce dagli ingressi. I soccorritori si danno da fare, ma la situazione è infernale. Si salveranno solo in 4 o 5. Nei giorni successivi, i corpi recuperati sono centinaia e centinaia, ammassati prima nella banca locale, e poi sul corso principale. Vi sono, tra i corpi dilaniati riconosciuti dai parenti, anche moltissimi non identificati che verranno seppelliti in fosse comuni. Circa 250 le vedove, e un migliaio gli orfani, le conseguenze che la tragedia ha lasciato. Le stime fatte a ridosso dell’incidente parlano di cifre più contenute rispetto a quelle ipotizzate successivamente. Molto importante, per non dimenticare quanto avvenuto, il ruolo del reverendo di Monongah, Everett Francis Briggs, che nel 1964 in una pubblicazione raccoglie documenti, testimonianze dei parenti.

Se il numero delle morti è controverso, quelle che invece appaiono certe sono le terribili condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori che possono contare – con il cd buddy system o pal system – nell’appoggio altrui per affrontare e sopportare le ostili condizioni di vita nei cantieri. Questi aiutanti, che si recano al seguito dei minatori dentro le gallerie, non vengono assunti, non è nemmeno registrato il loro ingresso. Prendono solo qualche mancia, a secondo della quantità di ardesia che riescono a portare in superficie. La paga dei minatori è poco meno di un dollaro al giorno, anche se in proporzione più alta di un bracciante calabrese di allora. Si vive in piccole baracche di proprietà della stessa compagnia mineraria, spesso fatiscenti e prive degli indispensabili servizi igienici. L’orario di lavoro è di più di dieci ore al giorno. Un tipo di lavoro che gli altri emigrati non sono più disposti a fare e che viene invece fatto dagli italiani che insieme a polacchi, slavi e turchi, avranno le maggiori perdite di vite.

Dopo il gravissimo incidente, purtroppo, non c’è l’interesse delle autorità per accertare le responsabilità, e anche i risarcimenti alle famiglie spesso non arrivano mai a destinazione.

Il prof. Tropea con Giuseppe Cino a Lago

LA RICOSTRUZIONE STORICA DEL PROF. TROPEA E LA VICENDA UMANA DELLA FAMIGLIA ABATE
Nel mese di ottobre 2016, Tropea ha visitato Lago, accompagnato da Enrico Grammaroli dell’Università Tor Vergata di Roma, per avere delle conferme sulle sue ricerche e sulle vittime laghitane. Una ricostruzione della vicenda della famiglia Abate -, che si è svolta tra gli archivi comunali, e parlando con le persone più anziane. Alla ricerca hanno collaborato Giuseppe Cino della neonata associazione dei “Laghitani nel Mondo” ed il cav. Salvatore Muto, mente storica degli emigrati laghitani.

Francesco Abate nasce a Lago nel 1865 da Carlo e Luigia Scanga, primo di 5 figli. All’età di 22 anni si sposa con Maria Gaetano di Castrovillari. Dal matrimonio nasceranno: Carlo Giovanni nel 1888, Giuseppe nel 1893, Luigia nel 1896, Battista nel 1898, Giovanni nel 1900 ed infine Enrico nel 1903, anno in cui la famiglia emigra in America in cerca di fortuna. Qui, il padre Francesco con i figli Carlo e Giuseppe vengono assunti dalla “Fairmont Cool Company” che opera nell’estrazione del carbone. Lavoreranno sotto terra a decine e decine di metri sotto le profondità del fiume West Fork, sino a quella mattina di dicembre. Gli Abate si trovavano tutti e tre nella galleria n° 6 dove perdono la vita – sempre stando alle cifre ufficiali fornite nel gennaio 1908 dall’Annual Report of Department of Mines del West Virginia – una sessantina di italiani, mentre più di un centinaio moriranno nella galleria n° 8.

Da allora, dopo la loro morte degli Abate si perde memoria della tragedia. Giuseppe, fratello di Francesco che era rimasto a vivere nella propria terra, di questa storia non aveva più saputo nulla, e né la pronipote che attualmente vive a Lago, con la quale ha avuto modo di parlare il prof. Tropea, ha mai saputo della sorte dei congiunti emigrati. Ora, grazie al lavoro di scavo del docente della cattedra di sociologia alla George Washington University, e figlio egli stesso di un minatore italiano di origini calabresi, che da una quarantina di anni compie ricerche sul disastro di Monongah, si conosce un pezzetto di storia in più di questi sfortunati nostri connazionali che invece di realizzare i loro sogni, in America hanno trovato la morte, sepolti lontano, su una collina di Monongah.

LINK UTILI

MONONGAH A TRAGEDY NOT TO FORGET (aggiornamento 6 dicembre 2018)

Foto di gruppo con il prof. Tropea, Pino Cino ed il figlio Francesco Domenico, ed una parente degli Abate residente a Lago (foto Bruno Pino)

Today the 111 years of the tragedy of Monongah in West Virginia (USA) occur, where 361 miners died, of which 170 were of Italian origin, most of them from Calabria, from Caccuri, San Giovanni in Fiore, Carfizzi, Falerna, Guardia Piemontese, Strongoli, Castrovillari , Gioiosa Ionica and San Nicola dell’Alto and Lago.

Among the victims are three of our countrymen Abbot (Abbate) Francesco of 42 years and his two sons Carlo Giovanni of 19 and Joseph of 14 years.

After many years the mining tragedy of Monongah is rebuilt, analyzed and revealed to the world thanks above all to the study of researchers and enthusiasts. These include Joseph Tropea, professor emeritus of George Washintong University, who continues his search for relatives of the victims. It is especially thanks to him if he managed to contact in Italy, children and grandchildren of those poor wretches.

Today, those who are forced to leave their country must be recognized as having contributed to the redemption of their land of origin from poverty, as well as to the progress of the host communities, through hard work, sometimes humiliating, but certainly a job done with dignity and dedication, work that has often allowed to achieve prestigious goals, high professionalism and success in all areas of social life often cost the sacrifice of their lives.

The human and social affair of Monongah should not, however, only be a reason for commemoration, but must represent the commitment on the part of all of us in the construction of a conscious citizenship and a culture of security that can avoid the repetition of similar tragedies in the workplace. Especially today that Italy has become land of landing and hope for so many people who come from the poorest countries in the world and who, today as then, seek better conditions of life.

The commemoration of the tragedy of Monongah must serve, especially to the younger generations, to reflect on the phenomenon of “emigration” and to recognize equal dignity and rights to those who, like so many of our emigrants, leave their land and family to build a better future.

Storie di frane e paesi scomparsi. La vicenda di Laghitello in un convegno a Lago (Cs)

Laghitello anni ’30

In Calabria esistono diversi casi di abbandono di interi paesi. Paesi con secoli di storia alle spalle che scompaiono. Per gli effetti dello spostamento delle popolazioni verso le coste, perché interessati da forti flussi migratori, o perché distrutti da terremoti o alluvioni. A volte vengono abbandonati perché il terreno dove sorgono è interessato da una secolare vicenda di frane e dissesto idrogeologico.

La storia di Laghitello, antico casale di Aiello, è da iscriversi in questo ultimo caso. Ma più che abbandonato, si dovrebbe usare il termine “scomparso”. Il piccolo agglomerato, che proprio 200 anni fa, nel 1811, venne accorpato alla vicinissima Lago, è travolto nel corso del tempo da un segnato destino geologico che agli inizi degli anni ‘50 lo svuota del tutto. È il 1952-3 quando, racconta uno dei due testimoni intervistati per il documentario “Il paese scomparso” del regista Massimo De Pascale, gli ultimi abitanti rimasti si trasferiscono a Lago, nelle case popolari appena costruite. Il cortometraggio, ideato da Sergio Chiatto, Gaetano Osso e Francesco Mazzotta, in occasione del bicentenario dell’accorpamento, racconta attraverso le testimonianze di Nicola De Luca e Francesco Piluso, con immagini attuali e frame del passato, la vita che vi si svolgeva. Il mulino, gli orti, le coltivazioni di grano e “grandiano” (granoturco), le processioni votive in onore della Madonna delle Grazie custodita nella piccola chiesetta, il ponte di legno, a vucata delle donne, i suoni della forgia, lo zampillare delle uniche due fontane pubbliche dove prendere l’acqua per bere e per i bisogni, le partite tra ragazzi col pallone di pezza, le goliardate, la fame, la solidarietà tra i vicini.

La vicenda di Laghitello, che può assomigliare a quella di tanti altri paesini calabresi, sarà al centro di un convegno (Storie di frane e di paesi scomparsi; Laghitello, ricostruzione storica, antropologica e analisi dei fenomeni) che si terrà sabato 17 dicembre a Lago, a partire dalla 11, nell’auditorium delle scuole medie di via Falsetti. Insieme alle associazioni L’Arcipelago e Coccinella onlus che organizzano l’incontro, patrocinato dalla Provincia di Cosenza, ci saranno l’Istituto scolastico G. Mameli di Amantea, i comuni di Lago e Aiello, la Sigea e l’Istituto per gli studi storici di Cosenza. Nel corso nell’incontro, durante il quale verrà proiettato il cortometraggio citato (10 min. riprese e montaggio Nicola Carvello), interverranno: Sergio Chiatto (Laghitello nella storia); Gaetano Osso e Nicola Paoli (Ricostruzione dei fenomeni franosi nel territorio di Laghitello e Lago); Francesco Mazzotta (Il trasferimento dell’abitato di Laghitello e le ripercussioni sull’urbanistica di Lago). E i professori Gioacchino Lena dell’Istituto studi storici di Cosenza, e Vito Teti, docente di Etnologia e Letterature Popolari dell’Unical  che tireranno le conclusioni. Nelle intenzioni degli organizzatori, «il  convegno  si  pone  l’obiettivo  di  dare  una risposta    ai    tanti    interrogativi    che    ancora circondano le vicende di Laghitello e, soprattutto, di  far  conoscere  alle  nuove  generazioni  una pagina  molto  importante  ma  poco  nota  della storia locale». Inoltre, «la ricostruzione delle   vicende   della   piccola comunità rappresenta  quindi  un  vero  e  proprio dovere  e  anche  una  forma  di  tardivo  risarcimento per lo scempio di un luogo di estremo interesse, sia dal punto di vista   geologico che da quello antropologico».