Anton Calabrès, il marinaio calabrese di Cristoforo Colombo

Il marinaio – che insieme ad un altro calabrese, Angelo Manetti, prese parte alle spedizioni colombiane – è da considerarsi il primo emigrato in assoluto in terra d’America.
Qui altri post sull’argomento.

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di Giuseppe Pisano (Pubblicato su Calabria Sconosciuta N° 139-140)
Fu il primo calabrese a varcare l’Oceano e a mettere piede sul quel Nuovo Mondo in cui, nei secoli successivi tanti suoi conterranei lo avrebbero seguito. Si chiamava Anton Calabrés (1), marinaio, l’uomo che assieme ad altri seguì Cristoforo Colombo nel primo viaggio alla scoperta del Nuovo Mondo a bordo della Pinta. Di lui si sa poco o niente e fino ad ora il suo nome è passato inosservato, nascosto fra le pieghe della storia, dimenticato fra le pagine dei documenti dell’epoca, confuso fra quelli dei tanti che parteciparono a quell’impresa, più di 500 anni fa. Solo nel 1982 il nome di Anton Calabrés venne strappato per un attimo alle nebbie della dimenticanza quando Antonio Quinto Pisano, all’epoca consigliere comunale di Soverato, propose ed ottenne di dedicare una strada al misterioso navigatore, del quale aveva trovato menzione in antichi testi marinari. Poi più nulla! Ma chi era e da dove veniva Anton Calabrés(2)? Su quest’ultimo punto le nostre ricerche ci portano a formulare l’ipotesi che sia di Amantea, antico centro demaniale marinaro (3) il cui porto, nel XV secolo, era il più attivo della costa tirrenica della Calabria centro-settentrionale e l’unico capace di ospitare imbarcazioni molto pesanti (4). Inoltre, si è potuto riscontrare che in Amantea – dove peraltro la presenza genovese a quel tempo era molto intensa(5)- esiste una tradizione orale, in particolare tra gli abitanti più anziani del centro storico, che parla di un’antica commemorazione che si svolse in onore del marinaio amanteano il quale seguì Colombo nel primo viaggio di scoperta del nuovo continente e di lì a poco venne costruita, nella zona vecchia, una chiesetta denominata della Pinta (6). E proprio nella zona più antica di Amantea esiste un vico la Pinta(7) e una fontanella del ‘500 detta della Pinta(8). Vi sono però pareri discordanti sulla figura e sulle origini di Anton Calabrés. Secondo lo studioso Gianni Aiello le origini natie del marinaio calabrese di Colombo “potrebbero ricollegarsi in quel di Seminara, lo stesso luogo da dove proveniva Giovanni Calabrese, luogotenente di Carlo V e che guidò l’assedio di Tunisi”(9). Per Bruno Aloi, membro del “Comitato Nazionale per Colombo” di Genova, si tratterebbe invece di “Antonio Calabrese di Cirò, quando il paese si chiamava Ypskron”.
Di Calabrés, come dicevamo, si sa poco o niente. Il suo nome, infatti, compare per la prima volta proprio nei documenti riguardanti il primo viaggio di Colombo attraverso l’Oceano. Prima di quell’impresa di lui non si hanno notizie, né si sa di suoi precedenti viaggi per mare, il suo nome indica una sicura origine calabrese (10), ma nulla sappiamo della sua famiglia nè di suoi eventuali discendenti. Anton Calabrés, dunque, entrò a far parte dell’equipaggio di Cristoforo Colombo nel luglio del 1492, assieme ad altri due italiani: il genovese Jacome el Rico ed il veneziano Juan Veçano. Per il resto l’equipaggio (90 persone complessivamente) era formato per la quasi totalità da spagnoli (84), ad eccezione del portoghese Juan Arias e del negro delle Canarie Juan Portugues. Non era stato facile reclutare gli uomini. La storiografia ufficiale dice che nessuno, nemmeno i più audaci o i più disperati, erano disposti a rischiare la vita in un’impresa che Juan Rodriguez de Mafra aveva definito “cosa vana e stolta”, profetizzando per gli sventurati che vi avessero preso parte “pericoli orribili”. Quando già Colombo era riuscito ad ottenere le tre navi (due caravelle, la Pinta di Gomez Rascon e Christobal Quintero e la Nina di Juan Nino, ed una caracca, La Gallega del biscaglino Juan de la Cosa, poi ribattezzata Santa Maria) solo quattro uomini, condannati alla pena capitale e ricercati dalle guardie, avevano chiesto di essere arruolati. I sovrani don Ferdinando e Isabella, infatti, per facilitare l’allestimento della spedizione, avevano promesso di accordare la grazia più ampia a quanti, già colpiti da pena di carcere o di morte, si fossero arruolati negli equipaggi colombiani. Così Alonso Clavijo di Vejer, Juan de Moguer e Bartolomè Torres di Palos e Pedro Yzquierdo di Lepe chiesero di essere ammessi all’equipaggio. Il Torres aveva ucciso, nel novembre del 1491, un certo Juan Martìn, banditore di Palos, forse per una questione di donne. Imprigionato e condannato a morte, era evaso dalla piccola e incustodita prigione locale, grazie all’aiuto di tre suoi amici. Datisi alla macchia, i quattro erano riusciti fino a quel momento a farla franca e forse non avremmo mai saputo nulla di loro se la notizia della possibile grazia non li avesse spinti ad entrare nell’equipaggio di Cristoforo Colombo e nella storia. Ma per convincere gli altri ci voleva il carisma di un uomo di mare conosciuto e stimato da tutti. Padre Marchena, fedele sostenitore ed alleato di Colombo, pensò allora di coinvolgere nell’impresa Martin Alonso Pinzon, pilota e capitano di mare, navigatore esperto e ricco proprietario di una nave con la quale aveva partecipato alla campagna contro i portoghesi e si era recato anche a Roma, dove aveva potuto consultare negli archivi vaticani alcune carte nautiche che avallavano sorprendentemente le ipotesi di Colombo. Quando incontra Colombo, Pinzon ha cinquant’anni ed ha navigato tutto quello che c’era allora di navigabile. Gli bastano poche battute per comprendere di trovarsi di fronte ad un uomo esperto di problemi marinari e dotato della luce del genio. Accetta di prendere parte all’impresa come comandante della Pinta ed annette subito anche suo fratello,Vicente Yanez, che sarà messo al comando della Nina. A quel punto, spinti dal carisma e dall’esperienza dei Pinzon, furono in molti, nel giro di qualche settimana, a sottoscrivere il contratto di ingaggio. Fra di loro anche il nostro Anton Calabrés che probabilmente giunse al porto nella tenuta tipica dei marinai, con il berretto rosso conico e la cappa grigia. Per un anno, tanto è prevista la durata della navigazione, riceverà come gli altri dodicimila maravedis ed ha diritto ogni giorno a circa 350 grammi di biscotto, ad un azcumbre divino ed a 250 grammi di carne secca o di pesce. Assieme a lui, sulla stessa caravella, anche il veneziano Juan Veçano.
Ma chi erano questi uomini che per denaro o per avventura scelsero di affrontare uno dei misteri più terribili ed inquietanti del tempo? E’ ormai sfatata la leggenda secondo la quale si trattava per la maggior parte di avanzi di galera. La studiosa statunitense Alicia Bache Gould ha infatti provato che furono pochissimi i delinquenti imbarcati, e precisamente i quattro spagnoli prima citati, una percentuale decisamente trascurabile sul complesso dei tre equipaggi. Gli altri esercitavano i mestieri più disparati: un chirurgo, un sarto, un argentiere, un interprete, un paio di cortigiani e regi notai ed infine gli alguaciles, incaricati delle provviste d’acque e con funzioni di sorveglianza e polizia a bordo. Anton Calabrès, invece, era proprio un marinaio, “marinero” come viene riportato anche nella Nuova Raccolta Colombiana, probabilmente un navigatore esperto che aveva già preso parte ad altri viaggi ed esplorazioni e che venne imbarcato fra i 26 uomini della Pinta (la “Dipinta”), la nave più veloce, quella che all’alba del 12 ottobre arriverà per prima in vista delle verdi coste di San Salvador. All’alba di venerdì 3 agosto 1492 la Nina, la Pinta e la Santa Maria salparono dal porto di Palos. Circa 3 mesi prima Colombo era stato nominato Almirante Major di Mare Oceano, viceré e governatore di tutte le nuove terre scoperte ed avente diritto ad un decimo delle rendite di quelle terre. Il 12 ottobre dello stesso anno sbarcò sulle coste di un’isola che i nativi chiamavano Gunahani e che fu in seguito identificata con Watling, dell’arcipelago delle Bahamas. Segui la scoperta di altre isole minori e di quella che Colombo chiamò Juana, l’attuale Cuba, lungo le coste della quale navigò così a lungo senza vederne la fine da pensare che potesse trattarsi di un continente. Era convinto di aver raggiunto l’Asia ma non trovò traccia dei ricchi tesori che alcuni viaggiatori raccontavano di aver trovato laggiù. Così Colombo venne a sapere dagli indigeni che verso levante esisteva un’isola ricchissima che loro chiamavano Babeque. il 19 novembre Colombo parti alla volta dell’isola meravigliosa, ma non poté raggiungerla a causa di un’improvvisa tempesta. Così decise di tornare indietro. Ma la Pinta, la nave su cui viaggiava Anton Calabrés, non segui le altre. Il comandante Martin Alonso Pinzon decise infatti di fare nuovamente rotta verso i magnifici tesori di Babeque. Che parte ebbe l’equipaggio in queste decisioni è difficile a dirsi. Tutto, comunque, si risolse in una bolla di sapone quando Pinzon, senza aver trovato i favoleggiati tesori, tornò a unirsi alla flotta, giustificando la sua apparente diserzione come il risultato dell’errata comprensione di un comando. Nel frattempo la Santa Maria aveva fatto naufragio, arenandosi su un banco di corallo presso la baia di Cap Haitien. Fu allora che Colombo, persa la sua imbarcazione più grande, chiese aiuto al cacicco indigeno Guacanagarì, che mise a disposizione i suoi uomini per recuperare tutto il carico della Santa Maria, gli strumenti di bordo, gli attrezzi, i materiali, le carte, i documenti e gran parte dei viveri, che furono trasferiti a bordo della Nina. E’ il giorno di Natale del 1492. Colombo decide di costruire a quel punto un forte che diventerà il primo insediamento europeo in America e si chiamerà la Navidad (Natività). Nei sotterranei vengono sistemati viveri per un anno, le solite merci di scambio e sementi per dare l’avvio ad una modesta attività agricola. Ai coloni viene lasciata anche la lancia della Santa Maria con la quale potranno esplorare la costa. Restarono alla Navidad 39 uomini agli ordini di Diego de Arana (11) e fra di loro c’era anche Anton Calabrés (12) che divenne così il primo italiano e il primo calabrese a stabilirsi sul nuovo continente. Ricevute le assicurazioni del caso dal cacicco Guacangari, Colombo ripartì alla volta dell’Europa il 2 gennaio 1493. Tornò alla Navidad dopo 11 mesi. In Spagna la notizia della sua scoperta gli aveva procurato titoli e onori, ma soprattutto l’appoggio necessario per allestire una flotta di 17 navi con la quale riprendere di nuovo il mare e tornare nelle terre della grande avventura. Quando il 28 Novembre giunse nuovamente alla Navidad, però, ai suoi occhi si presentò uno spettacolo agghiacciante: le case e la fortezza erano state bruciate e sulla spiaggia giacevano il cadavere di Anton Calabrés e dei suoi compagni (13). Violenze e soprusi nei confronti dei nativi, causate soprattutto da questioni di donne e dalla caccia forsennata ad improbabili tesori, avevano segnato la loro breve permanenza nel nuovo mondo degenerando in un eccidio finale che non aveva risparmiato nessuno degli europei.
E’ tuttora difficile definire come la tragedia si sia svolta. Ad uccidere quegli uomini si pensa siano stati i caribi di Coanabò di fronte ad un atteggiamento neutrale dei taino di Guacanagarì. Pur se nelle dichiarazioni del cacicco taino e dei suoi vi erano chiari elementi di falsità e di lusinga per timore d’essere pesantemente punito, l’Ammiraglio genovese preferì non imprigionare Guacanagarì(14).
A Colombo non restò altro da fare che riprendere il mare, lasciandosi alle spalle quello scempio. Era il 7 dicembre del 1493.

NOTE
1)Calabrès era il nomignolo che indicava la regione di provenienza.
2)Da poco più di un decennio il nome di Calabrés viene ufficialmente menzionato nelle più importanti pubblicazioni colombiane (Cfr. per tutti la collana Nuova Raccolta Colombiana, Roma,Volume XVII, 1993, p.211).
3)Per dare un esempio di quanto fosse strategicamente importante per la Corona la città di Amantea riportiamo un privilegio di re Ferrante d’Aragona del 1496 che stabiliva “...che niuno Rè potesse vendere, ò dare la predetta città, che stia sotto vassallaggio, solo che sotto ‘l dominio Reale; e s’alcuno Rè pretendesse venderla, ò darla, che gl’Amanteoti spossini difendere coll’arme senza incorrere in pena di ribellione…”.
4)Cfr. Savaglio A., Il Regio Castello di Amantea, Rotary Club, Amantea, 2002, p.67. “Essendo sede di un porto, Amantea attirò entro le sue mura un variegato stuolo di gente e di commercianti” (Ibidem, p.76). Difatti si distinse come centro di commerci soprattutto della seta, che sul mercato di Genova veniva preferita persino a quella proveniente dalla Spagna. “In quest’approdo sicuro ed obbligato per le rotte del Tirreno, nel gennaio del 1460, giunse Antonello da Messina, proveniente quasi certamente per mare da un imbarco vicino Roma”(Cfr. Segreti V., Storia e tradizioni marinare di Amantea, Jason, Reggio Calabria, 1992, p.15). Il pittore siciliano e Cristoforo Colombo -tuttora non se ne conoscono le ragioni- chiesero ambedue di essere sepolti in sai monacali e furono raffigurati sulle banconote da 5.000 lire italiane.
5)La presenza genovese in questo territorio era molto massiccia. Commercianti e banchieri liguri spesso aiutati dal clero genovese, anch’esso fortemente presente in in tutta la Calabria Citeriore, finivano per monopolizzare tutte le risorse del territorio e già tra la fine del ‘400, e soprattutto nel ‘500, molte famiglie genovesi (Adorno, Ravaschieri, Cybo, Pinelli…) finirono per infeudarsi buona parte della Calabria centro-settentrionale e non solo.
6)Ringrazio particolarmente la signora Caruso, abitante in via Indipendenza, che sul finire degli anni ’90 mi fornì informazioni utili su tale argomento.
7)”E’ noto per tradizione a tutt’Amantea che il palazzo del Vescovo poggiasse alle rupe della Pinta, quartierino della parte più antica della città detta Catocastro, e denominato anche oggi <> dalla chiesa cattedrale di S. Maria <> . Sorgeva proprio sotto l’orto e casa Poncetta rimpetto ai marchesi De Luca, tra il presente pubblico Oratorio degli stessi e la chiesa parrocchiale del profeta S. Elia”(Cfr. Amantea (ragguagli storici), in Rivista Storica Calabrese, anno III, 1895, p.322).
8)ASCS, Notar Giò Angelo Muzzillo, 7 gennaio 1580, foll. 7 e 9 r. . Tra i monumenti di Palos de la Frontera vi è un’antica fontana pubblica (Fontanilla) cui, secondo la tradizione, i marinai di Colombo avrebbero attinto le provviste d’acqua per le tre caravelle in partenza per l’America. Sempre nella cittadina andalusa è presente un monumento in ricordo dei “Marinai della scoperta”, dove figura il nome di “Anton Calabrés”. Secondo il colombista Vittorio Giunciuglio “contrariamente a quanto convenuto con re Ferdinando e a quanto scritto nei nostri libri di storia, le caravelle non salparono da Palos (paese situato sul Rio Tinto a circa 5 km dalla foce) ma dalla barra di Saltes, località situata alla foce del fiume. Guarda caso in quella località c’era l’imbarcadero della Rabida, munito di una preziosa fontana, con la quale furono riempiti 150 barilotti d’acqua, forniti dai conventi francescani e non dai sovrani…ciò avvalora ancor più la tesi che la grande Scoperta fu fatta per la Chiesa e non per la Spagna, in quanto il convento era di proprietà del Vaticano e quindi amministrato dal vescovo Geraldini, nunzio apostolico di Papa Innocenzo VIII in Spagna”.
10)Anche Giocchino da Fiore veniva chiamato da Colombo “l’abate Joahachin Calabrés” (Cfr. per tutti Colombo C., Lettere ai reali di Spagna, Sellerio, Palermo, 1992, p.73).
11)Cugino di Beatrice de Arana, la compagna cordobese di Cristoforo.
12)Taviani P.E., Cristoforo Colombo, suppl. a Famiglia Cristiana n.31, Il Mulino, 2003, p.137. Oltre a Calabrés rimasero alla Navidad anche Pietro Gutiérrez, Rodrigo de Escobedo, Luis de Torres, Juan de Medina, Diego Pérez, Alonso Morales, Domingo Vizcaino, Jacome el Rico, i due chirurghi maestre Juan e maestre Alfonso e il calafato Lope. Inoltre, Taviani aggiunge che tra i 39 vi erano anche un cannoniere e un nostromo.
13)Undici cadaveri ritrovati erano recenti: erano stati uccisi non prima di Settembre, nove mesi dopo l’impianto della colonia. La morte di Calabrés potrebbe risalire quindi a quel periodo.

14)Da rilevare invece l’atteggiamento di Bernardo Boyl – primo missionario al seguito dell’Ammiraglio – rispetto a tale vicenda: voleva che il cacicco taino fosse messo in catene, idea condivisa anche da tutti gli altri. Che la condividessero gli hidalgos e i marinai è comprensibile, ma che la sostenesse padre Boyl, inviato a convertire gli indigeni, ci lascia alquanto perplessi.

La Calabria e la scoperta dell'America

Nella conferenza su “La Calabria e la scoperta dell’America”, tenuta dallo studioso Giuseppe Pisano presso l’Università della Terza Età a Soverato, si parla in particolar modo dei due calabresi che secondo alcune fonti presero parte alle spedizioni di Colombo. Si tratta di Anton Calabres di Amantea e Angelo Manetti di Ajello. Lo stesso tema è stato affrontato in diverse occasioni. Ricordiamo, per esempio, l’incontro dell’agosto 2011 ad Aiello Calabro.

Giovan Lorenzo Anania, cosmografo e teologo calabrese del XVI secolo

Anania e i segreti di Cristoforo Colombo
Il cosmografo e teologo di Taverna nel 1573 diede alle stampe l’opera “La Universal Fabrica del Mondo”. Molti particolari inediti contenuti nel quarto tomo a proposito del viaggiatore genovese
di Roberto Messina 
(Fonte Gazzetta del Sud del 19.01.2012)

Da anni lo storico soveratese Giuseppe Pisano si occupa delle tante connessioni tra Calabria, scoperta dell’America e Cristoforo Colombo. Tesi oggi in parte condivise e sostenute anche dal colombista di fama mondiale Ruggero Marino (v. “L’uomo che superò i confini del mondo”, Sperling & Kupfer).
Dopo avere pubblicato alcuni saggi sui due marinai calabresi che si trovavano sulle caravelle (Anton Calabrès e Angelo Manetti) e, di recente, uno (recensito dal nostro giornale) dal suggestivo titolo “San Francesco di Paola e Cristoforo Colombo: il sogno della crociata”, Pisano si ripresenta con un nuovo studio intitolato “Le rivelazioni su Colombo e sul Nuovo Mondo del cosmografo e teologo calabrese del XVI secolo, Giovan Lorenzo Anania”.
Anania (o “d’Anania”), nato a Taverna intorno al 1544, è autore di un’importante opera, però quasi misconosciuta, pubblicata nel 1573: “La Universal Fabrica del Mondo”, testo di cosmografia che registrò immediato successo, con 4 ristampe in pochi anni, e importanti lettori come, ad esempio, Torquato Tasso, che annotò accuratamente una copia dell’edizione veneziana del 1582.
La “Universal Fabrica” è un’opera enciclopedica che mira a costituire una summa delle conoscenze geografiche e cosmografiche cinquecentesche; viene redatta su una raccolta di scritti di dotti e viaggiatori, ma anche con fonti dirette, spesso citate tra le pagine per nome e circostanze dell’incontro. Un monumentale lavoro, diviso in quattro trattati, dedicati rispettivamente ad Europa, Asia, Africa e Nuovo Mondo. Su quest’ultimo, lo storico Giuseppe Pisano ha concentrato la sua attenzione, spulciando, pagina per pagina, tutte le edizioni dell’opera, e riconoscendo alcune fonti dirette dell’autore mai state individuate precedentemente da alcuno. Si tratta di personaggi rilevanti, dai quali Anania riuscì ad ottenere resoconti di viaggio che inserirà nel suo lavoro. Tra questi, l’esploratore e conquistatore spagnolo Juan Pardo, che guidò una spedizione spagnola negli odierni Carolina (Sud e Nord) e Tennessee, nella seconda metà del secolo XVI.
Il testo di Anania, sottolinea Pisano, contiene numerose e sorprendenti rivelazioni sul continente americano scoperto da poco. Per esempio, la sbalorditiva notizia del ritrovamento, in Messico, della tomba di un soldato romano: “un sepolcro, con un huomo vestito in arme all’antica Romana, alcune medaglie d’oro con la descrittione di Giulio Cesare perpetuo Dittatore”. Anche se ciò – sottolinea lo studioso soveratese -: “non deve far pensare a un tentativodell’autore di creare sensazionalismo o rivendicare una primogenitura romana nel contesto della ‘scoperta dell’America’; difatti l’Anania afferma esservi anche ‘capitati per tempesta molti cartaginesi’ in quelle terre, così come parla in più occasioni anche di contatti con le coste americane del Pacifico da parte di cinesi e giapponesi nel periodo precedente alla spedizione colombiana”.
Ma le notizie sui ritrovamenti – fa sapere lo storico – non finiscono qui. Il cosmografo e teologo di Taverna parla di “sepolcri di giganti” e di “ossa di giganti” ritrovati in Messico e in Perù, e di alcuni “pozzi molto profondi” rinvenuti in Patagonia. Altrettanto interessanti le dichiarazioni sulla figura di Colombo, che Anania definisce: “saggio matematico, non meno che animoso nocchiero”; e ciò a smentire quanti ancora oggi lo ritengono sostanzialmente un avventuriero e ignorante plebeo.
Pisano mette in evidenza un passo che potrebbe rivelare una probabile scoperta fatta dell’Ammiraglio nel corso del suo terzo viaggio (1498): le miniere d’argento intorno alla penisola di Paria, in Venezuela.
Diversi gli interrogativi che lo studioso si pone. Perché, per cominciare, si è sempre parlato di presenza di perle e di oro in quel territorio, e mai invece di argento? Perché l’Ammiraglio, come scrive il colombista Paolo Emilio Taviani, appena giunto dalle Canarie sulla costa continentale venezuelana “ben diversamente che a San Salvador, appare timido e impacciato, quasi a voler rifiutare la scoperta della terraferma”? Perché Colombo, dopo essere rimasto a Paria per due settimane, decide improvvisamente di dirigersi a Santo Domingo, capitale dell’isola di Hispaniola, evitando di perlustrare persino la grande isola, peraltro ricca di perle, di Margarida?
Le miniere d’argento della zona venezuelana esplorata da Colombo non vennero rivelate ai reali spagnoli; a chi bisognava invece rivelarle? I terrificanti nomi di battesimo dati da Colombo ai due stretti, “Boca de la Sierpe” e “Boca del Dragon”, dovevano servire
 ad accentuare la percezione di grande pericolo nel Golfo di Paria, e quindi tenere lontani eventuali concorrenti? E la Chiesa, davvero era all’oscuro di tutto quanto?
Pisano lascia trasparire una soluzione e una possibilità risolutiva: dietro tutto questo, forse, c’erano i famosi Templari, i cavalieri di Cristo, cui Colombo era legato, e il cui coinvolgimento risolverebbe parecchi di quei perché…

Colombo, 520 anni fa, la scoperta delle Americhe

Colombo
… Giovedì 11 ottobre del 1492: l’Ammiraglio navigò verso ovest-sud-ovest; ebbero il mare più tempestoso che avessero mai sperimentato durante tutto il viaggio…“.

Il brano è tratto da “Cristoforo Colombo e il Papa tradito” di Ruggero Marino, edizioni RTM 1997. E dello stesso volume, aggiungiamo qualche pagina, per celebrare il 520esimo anniversario del viaggio di Colombo, che in qualche maniera è legato anche alla Calabria: ad Aiello per il marinaio Angelo Manetti che con Colombo ha navigato, e per il papa Cybo, della stessa famiglia feudataria di Ajello; ad Amantea per il marinaio Anton Calabrès; e infine a Paola per i rapporti del navigatore con S. Francesco.

Per saperne di più sulla vicenda colombiana, vi consigliamo l’ultimo dei libri di Marino: “L’Uomo che superò i confini del mondo” (vedi anche QUI), ancora reperibile in libreria. Il volume, come si ricorderà, era stato presentato ad Aiello, nell’agosto 2011, alla presenza dell’Autore e di autorevoli relatori.


In fondo al post, una serie di link sull’argomento.

Colombo e la Calabria. Un incontro con la comunità italiana a Brooklyn

Fonte Il Quotidiano della Calabria del 22.11.2011, pag. 51 

La scoperta dell’America, la figura di Colombo e le sue relazioni con papa Innocenzo VIII Cybo, i due marinai calabresi, Angelo Manetti e Anton Calabres, che si dice fossero imbarcati con l’Ammiraglio, e il ruolo di San Francesco di Paola. È la rilettura della vicenda colombiana, diversa da quella conosciuta sinora. Già la scorsa estate, in occasione della presentazione calabrese del volume del giornalista colombista Ruggero Marino (L’uomo che superò i confini del mondo, Sperling & Kupfer 2010), si era tenuta una conferenza di approfondimento durante la quale l’autore, che ricerca la verità storica su Colombo da oltre 20 anni, aveva ribadito quelli che sono i suoi convincimenti: «Non un marinaio sprovveduto come lo ha dipinto la storiografia ufficiale per 500 anni, ma scienziato, esperto, cosmografo; non uno qualunque, ma di rango alto, verosimilmente figlio o nipote di papa Cybo, Innocenzo VIII, vero deus ex machina del viaggio verso le Americhe». 
Una storia suggestiva, oggetto ultimamente di una puntata di Voyager su Rai 2, che riscuote un certo interesse, soprattutto nelle comunità di emigrati all’estero. Proprio di recente, in un noto ristorante di Brooklyn a New York, si è svolto un convegno dal titolo “La Calabria e la scoperta dell’America: i marinai calabresi di Cristoforo Colombo ed il ruolo di San Francesco di Paola”, al quale hanno partecipato: Salvatore Ferrigno, ex deputato degli italiani all’estero; Pino Mittiga, giornalista di “America Oggi”; Francesco Trimboli, presidente dell’associazione culturale “Nausicaa” e Giuseppe Pisano, autore di uno studio riguardante le connessioni tra la Calabria e la storia della scoperta del continente americano.


L’Onorevole Ferrigno ha voluto evidenziare l’importanza di tale argomento che sancisce una presenza importante della Calabria, e quindi anche dell’Italia, nelle vicende legate alla scoperta del Nuovo Mondo. Di pari tenore, l’intervento del giornalista Mittiga il quale ha inteso sottolineare il fatto che è la prima volta che negli USA si parla dei marinai calabresi di Colombo e del probabile ruolo di San Francesco di Paola rispetto alla spedizione colombiana. Dal canto suo, l’avvocato Trimboli ha elogiato lo studio del professore Pisano il quale da anni conduce questa ricerca. 
A chiusura dell’incontro, l’intervento dello studioso calabrese che ha parlato dei due marinai al seguito di Colombo: Anton Calabrès (imbarcato sulla caravella Pinta) e Angelo Manetti di Aiello Calabro; e di due uomini di chiesa calabresi che, a suo avviso, hanno dei legami con l’Ammiraglio genovese: San Francesco di Paola, contemporaneo di Colombo, e Gioacchino da Fiore. 
Secondo Pisano, in relazione al Santo paolano, dopo il primo viaggio di scoperta dell’Almirante senza la presenza di uomini di chiesa, il primo missionario con compiti di delegato apostolico concessi con bolla pontificia fu Bernardo Boyl il quale poco tempo prima aveva deciso di entrare proprio nell’Ordine di San Francesco di Paola dopo avere conosciuto personalmente nel 1486 il suo fondatore a Tours, in Francia presso la corte di Luigi XI, il re più potente d’Europa. «Non si può non pensare – ha affermato – che il Santo calabrese, dichiarato da papa Pio XII Patrono della gente di mare italiana non abbia mai avuto rapporti con Cristoforo Colombo, soprattutto quando si è certi che lo stesso Boyl, compagno spirituale dell’Ammiraglio genovese, incontrò nuovamente nel 1494 il Paolano a Tours prima di recarsi a Roma dal Papa per incarico dello stesso Francesco». Nel prosieguo della sua relazione, Pisano ha parlato anche dei rapporti di Colombo con la corte francese e, attraverso la reinterpretazione di alcuni documenti, di un disegno che doveva portare alla realizzazione di una crociata antimusulmana, alle soglie del ‘500, voluta da San Francesco di Paola e da Colombo. 
Per quanto attiene invece Gioacchino da Fiore, lo storico ha parlato di un legame particolare tra l’Ammiraglio e il pensiero dell’abate Gioacchino, che d’altronde viene citato in tutti gli scritti del navigatore genovese: nel Giornale di bordo, in una lettera indirizzata ai reali spagnoli e in particolare nel Libro della profezia. 
Non sono mancati, nella relazione, riferimenti ai legami tra la Calabria e alcune famiglie che diedero un apporto fondamentale per la prima spedizione del navigatore genovese. «Se è vero che un componente della famiglia Geraldini, legato a papa Innocenzo VIII, diede una spinta fondamentale per la partenza di Colombo presso il Consiglio di Santa – ha sostenuto Pisano -, è vero anche che i Geraldini di Amelia (Umbria) a quel tempo erano massicciamente presenti in Calabria e ricoprivano incarichi ecclesiastici importanti; così come se è vero che il banchiere genovese Francesco Pinelli (pronipote di Innocenzo VIII) risulta oggi essere il principale finanziatore della spedizione di Colombo è anche vero che il fratello si trovava a Cosenza (tra il 1491 e il 1495) a rivestire l’incarico di arcivescovo, figura peraltro che ebbe legami molto forti con la Spagna».