S.S. Cosma e Damiano o "Santu Cuosimu", come si chiama in dialetto aiellese, si confonde tra le case del Centro Storico; è lì, tra le trame medioevali delle viuzze, su per la parte più alta del paese, sotto il castello, da secoli. Ha attraversato indenne il tempo e i moti tellurici che hanno squarciato in passato la nostra terra.
Tanto tempo fa, in questo luogo cultuale del XVI secolo, dedicato ai santi Medici, non era insolito vedervi aggirarsi gli adepti con la mozzetta celeste della Confraternita dell'Immacolata, membri della borghesia, e ancora prima quelli della Confraternita di Santa Maria dei Battenti. La chiesetta dalla linea "a capanna" è affiancata dalla cella campanaria ed arricchita da un portale lapideo del 5-600, opera degli scalpellini roglianesi. L'interno è a navata unica dove si conserva, sebbene visibilmente bisognoso di restauri urgenti, un affresco dell'ottocento dell'Assunzione della Vergine, probabilmente del pittore locale Raffaele Aloisio, mentre l'altare maggiore in stile Rococò ha nella cona un nicchia in cui prende posto la piccola e preziosa statua lignea del barocco napoletano raffigurante l'Immacolata, verso la quale, la Comunità locale ha un particolare legame devozionale che risale al 1623, l'anno della terribile pestilenza, in cui la Vergine veniva proclamata Patrona principale della città.
Qui, in questa deliziosa chiesetta - restaurata nel 2001, e prima ancora nel 1951 da parte dell'allora procuratore della Confraternita dell'Immacolata, Saverio Gervino, che "con intelletto d'amore l'ha fatta risorgere al culto antico" - si svolge ogni anno il Novenario dedicato alla Immacolata Concezione. Il suono della tradizione, quello delle zampogne, ed il profumo ed il sapore dei “cullurielli” che si spandono per le vie dell'antico borgo, caratterizzano come sempre la festa che apre le porte al Natale. La serata delle vigilia, come vuole una usanza locale, non può passare senza assaggiare queste particolari ciambelle di pasta lievitata a base di farina e patate, fritte nell'olio d'oliva, e senza sorseggiare un buon bicchiere di rosso vino locale. (bp)
Categoria: Storia
S. Severina e S. Giovanni in Fiore
I 10 giorni che sconvolsero il mondo. La rivoluzione sovietica compie 100 anni
Da Youtube – Il film fu commissionato, con mezzi larghissimi e totale autonomia, dal governo per la commemorazione del decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Protagonista assoluta dell’opera è la massa di operai, soldati e cittadini che furono chiamati a reinterpretare sé stessi nelle giornate vissute in prima persona. Il film fu girato quasi interamente a Leningrado e qui proiettato il 20 gennaio 1928: 7 rulli, 2220 metri; ma il metraggio originale era di 3800. La critica legata al regime accusò il regista di eccessivo sperimentalismo ed estetismo, inoltre il regista fu costretto ad eliminare dalla versione definitiva dell’opera i protagonisti della cosiddetta opposizione di sinistra, Trotsky e Zinov’ev, in quei mesi caduti in disgrazia per essersi opposti a Stalin.
Cultura. Riprende l'attività dell'#Icsaic
CATANZARO, 5 GEN 2017 – Riprende l’attività l’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Icsaic). Lo comunica il presidente Pantaleone Sergi, al termine di un incontro avuto al Dipartimento della Cultura della Regione. “C’è voluto l’impegno personale e diretto del presidente della Regione Mario Oliverio, che ringrazio a nome dei soci, e negli ultimi giorni sono arrivati atti concreti che ci consentono di guardare al nuovo anno con serenità. Ci scusiamo con studiosi, ricercatori e studenti che in questi sei mesi di inattività non hanno potuto consultare i fondi archivistici custoditi ma dalla prossima settimana saremo di nuovo operativi”.
In effetti – secondo quando si legge in una nota – la Regione ha finanziato un progetto dell’istituto che intende valorizzare il proprio patrimonio archivistico per renderlo maggiormente fruibile, anche su internet, alla comunità scientifica, non solo regionale fortemente, interessata alle vicende della Calabria del Novecento.
Dopo 34 anni, l’Icsaic, che ha sede all’Università della Calabria, riprende dunque una sua seconda vita. “Con soddisfazione – ha detto il presidente Sergi – devo dare atto al presidente Oliverio non tanto e non solo di avere mantenuto l’impegno assunto di ‘salvare’ l’istituto dalla contingenza economica negativa, bensì di averci in questi mesi stimolato a rilanciare il ruolo al servizio della ricerca storica e della cultura calabrese mediante progetti innovativi che contiamo di realizzare, anche con l’aiuto di altre istituzioni”.
Un’assemblea dei soci dell’Icsaic si terrà a breve per decidere un calendario di attività per il 2017.
“Sono convinto – ha aggiunto Sergi – che non ci mancherà, come in passato, il sostegno della Fondazione Carical e quello personale del suo presidente Mario Bozzo, né il supporto scientifico e istituzionale del prof. Davide Infante, presidente della Biblioteca Tarantelli che ci ospita. E speriamo pure che il presidente del Consiglio regionale si ricordi di noi”.
L’Icsaic – secondo quanto sostiene il suo presidente – cercherà poi di rafforzare la collaborazione con la Cgil, nelle sue diverse espressioni territoriali sempre molto vicina all’istituto, nonché con l’Anpi e con soggetti privati che hanno a cuore la cultura calabrese. Contatti saranno presi anche con Cisl e Uil, per avviare assieme progetti di ricerca sul mondo del lavoro.
“Con il direttore dell’istituto professor Giuseppe Masi e l’impegno volontaristico dei tanti soci – ha concluso Sergi – continueremo ad assicurare il miglior servizio possibile ai ricercatori, anche con strumenti informatici”.
RENDE (CS), 5 GEN 2017 – L’Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Icsaic) che riapre la porta agli studiosi – come annunciato dal presidente Pantaleone Sergi, dopo una serie di colloqui col presidente della Regione Mario Oliverio che si è attivato per il salvataggio dell’importante presidio culturale – si occupa di ricerca storica sulla Calabria contemporanea, conservazione di materiale documentario, divulgazione dell’attività e didattica della storia. Agli studiosi mette a disposizione un archivio cartaceo, video, fonico, con preziose testimonianze originali della storia contemporanea calabrese. Tra i tanti fondi archivistici si spiccano il fondo Paolo Cinanni, momentaneamente in custodia presso la sezione di Castrovillari dell’Archivio di Stato di Cosenza, e quelli della Federazione Provinciale del PCI di Cosenza (1943-1980), della Federazione Regionale del PSI (1970-1992), le carte di Fausto Gullo e di Francesco e Saverio Spezzano, di Florindo De Luca, Nicola Lombardi, Francesco Malgeri, Emanuele Terrana, eminenti personalità politiche calabresi, nonché di Nina Rotstein, internata a Ferramonti.
L’attiva adesione alla rete nazionale dell’INSMLI (Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia) – come spiega il direttore Giuseppe Masi – permette all’Istituto calabrese di essere inserito in un organismo di ricerca di livello nazionale ed europeo. La “Collana di studi e ricerche”, la “Collana di testimonianze: La memoria e la storia”, i Quaderni dell’ICSAIC, la collana “Prime edizioni”, e la “Rivista Calabrese di Storia del ‘900” hanno costituito gli strumenti, in dotazione all’Istituto, per la sua opera di documentazione e di diffusione. L’Icsaic, infine, ha versato alla Biblioteca Tarantelli dell’Università della Calabria, dove ha la propria sede il proprio patrimonio librario costituito da migliaia di volumi e riviste.
Monongah, tragedia dell'emigrazione italiana. Vi perirono anche tre minatori di Lago (Cs)
TRA le centinaia di minatori morti a Monongah, West Virginia, il 6 dicembre 1907, ci sono una quarantina di calabresi. Secondo le cifre ufficiali dell’epoca, le vittime totali della sciagura sono 361, di cui 171 italiani. In seguito, si viene a sapere che probabilmente i morti si avvicinano a mille (ma la cifra è controversa e per i necessari approfondimenti vi rimandiamo alle ricerche del prof. Tropea), la metà di origine italiana, provenienti da Abruzzo, Molise, Campania e appunto Calabria. I paesi da cui sono emigrati, ricordati in occasione del centenario, nel 2007, sono Caccuri, San Giovanni in Fiore, Carfizzi, Falerna, Guardia Piemontese, Strongoli, Castrovillari, Gioiosa Ionica, San Nicola dell’Alto.
Ma anche Lago, paesino in provincia di Cosenza, è ora incluso nell’elenco. Quel venerdì 6 dicembre, nella miniera della città del West Virginia interessata da una serie di forti esplosioni, muoiono tre emigrati di Lago. Un tributo di sangue che si va ad aggiungere alle storie già raccontate. Si chiamano Francesco Abate (Abbate), 42 anni, Carlo Giovanni, 19, e Giuseppe appena 14enne.
La tragedia per anni dimenticata viene ricostruita, analizzata e raccontata grazie allo studio di ricercatori e appassionati come Joseph Tropea della George Washington University che con perseveranza continua la sua ricerca dei parenti delle vittime. È soprattutto merito suo se si è riusciti a contattare in Italia figli e nipoti di quei poveri disgraziati. Nell’opera di divulgazione di questa triste pagina della più grave tragedia sul lavoro per gli emigrati italiani, anche un giornale come Gente d’Italia ha fatto la propria parte. Una pagina triste della storia dell’emigrazione italiana. “Come Marcinelle. Più di Marcinelle”.
Nei giorni 4 dicembre, giorno di S. Barbara patrona dei minatori, e 5 dicembre del 1907, giorno in cui viene anticipata la celebrazione di S. Nicola, la miniera di Monongah, dalla quale si estrae carbone ed ardesia, è rimasta chiusa. Il paesino dei monti Appalachi, tremila anime, ha avuto due giorni di festa per tutti. Secondo la ricostruzione del prof. Tropea, la Compagnia che gestisce la miniera, nei giorni di chiusura per risparmiare ha spento gli aereatori e di conseguenza il gas grisou si è accumulato nelle gallerie. Quel venerdì 6 dicembre, al ritorno al lavoro dei minatori, è bastata una scintilla per far saltare tutto in aria. Poco prima delle 10.30, due esplosioni devastano la miniera. Il boato si sente a 12 chilometri di distanza. Un terremoto che sconquassa il ventre della miniera e fa tremare la terra circostante. Subito dopo, è un coro di grida, di disperazione. Dalle baracche in cui vivono i minatori e le loro famiglie, mogli e figli, parenti, ed i minatori degli altri turni, si precipitano verso il luogo dello scoppio. Un fumo denso e aspro fuoriesce dagli ingressi. I soccorritori si danno da fare, ma la situazione è infernale. Si salveranno solo in 4 o 5. Nei giorni successivi, i corpi recuperati sono centinaia e centinaia, ammassati prima nella banca locale, e poi sul corso principale. Vi sono, tra i corpi dilaniati riconosciuti dai parenti, anche moltissimi non identificati che verranno seppelliti in fosse comuni. Circa 250 le vedove, e un migliaio gli orfani, le conseguenze che la tragedia ha lasciato. Le stime fatte a ridosso dell’incidente parlano di cifre più contenute rispetto a quelle ipotizzate successivamente. Molto importante, per non dimenticare quanto avvenuto, il ruolo del reverendo di Monongah, Everett Francis Briggs, che nel 1964 in una pubblicazione raccoglie documenti, testimonianze dei parenti.
Se il numero delle morti è controverso, quelle che invece appaiono certe sono le terribili condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori che possono contare – con il cd buddy system o pal system – nell’appoggio altrui per affrontare e sopportare le ostili condizioni di vita nei cantieri. Questi aiutanti, che si recano al seguito dei minatori dentro le gallerie, non vengono assunti, non è nemmeno registrato il loro ingresso. Prendono solo qualche mancia, a secondo della quantità di ardesia che riescono a portare in superficie. La paga dei minatori è poco meno di un dollaro al giorno, anche se in proporzione più alta di un bracciante calabrese di allora. Si vive in piccole baracche di proprietà della stessa compagnia mineraria, spesso fatiscenti e prive degli indispensabili servizi igienici. L’orario di lavoro è di più di dieci ore al giorno. Un tipo di lavoro che gli altri emigrati non sono più disposti a fare e che viene invece fatto dagli italiani che insieme a polacchi, slavi e turchi, avranno le maggiori perdite di vite.
Dopo il gravissimo incidente, purtroppo, non c’è l’interesse delle autorità per accertare le responsabilità, e anche i risarcimenti alle famiglie spesso non arrivano mai a destinazione.
LA RICOSTRUZIONE STORICA DEL PROF. TROPEA E LA VICENDA UMANA DELLA FAMIGLIA ABATE
Nel mese di ottobre 2016, Tropea ha visitato Lago, accompagnato da Enrico Grammaroli dell’Università Tor Vergata di Roma, per avere delle conferme sulle sue ricerche e sulle vittime laghitane. Una ricostruzione della vicenda della famiglia Abate -, che si è svolta tra gli archivi comunali, e parlando con le persone più anziane. Alla ricerca hanno collaborato Giuseppe Cino della neonata associazione dei “Laghitani nel Mondo” ed il cav. Salvatore Muto, mente storica degli emigrati laghitani.
Francesco Abate nasce a Lago nel 1865 da Carlo e Luigia Scanga, primo di 5 figli. All’età di 22 anni si sposa con Maria Gaetano di Castrovillari. Dal matrimonio nasceranno: Carlo Giovanni nel 1888, Giuseppe nel 1893, Luigia nel 1896, Battista nel 1898, Giovanni nel 1900 ed infine Enrico nel 1903, anno in cui la famiglia emigra in America in cerca di fortuna. Qui, il padre Francesco con i figli Carlo e Giuseppe vengono assunti dalla “Fairmont Cool Company” che opera nell’estrazione del carbone. Lavoreranno sotto terra a decine e decine di metri sotto le profondità del fiume West Fork, sino a quella mattina di dicembre. Gli Abate si trovavano tutti e tre nella galleria n° 6 dove perdono la vita – sempre stando alle cifre ufficiali fornite nel gennaio 1908 dall’Annual Report of Department of Mines del West Virginia – una sessantina di italiani, mentre più di un centinaio moriranno nella galleria n° 8.
Da allora, dopo la loro morte degli Abate si perde memoria della tragedia. Giuseppe, fratello di Francesco che era rimasto a vivere nella propria terra, di questa storia non aveva più saputo nulla, e né la pronipote che attualmente vive a Lago, con la quale ha avuto modo di parlare il prof. Tropea, ha mai saputo della sorte dei congiunti emigrati. Ora, grazie al lavoro di scavo del docente della cattedra di sociologia alla George Washington University, e figlio egli stesso di un minatore italiano di origini calabresi, che da una quarantina di anni compie ricerche sul disastro di Monongah, si conosce un pezzetto di storia in più di questi sfortunati nostri connazionali che invece di realizzare i loro sogni, in America hanno trovato la morte, sepolti lontano, su una collina di Monongah.
LINK UTILI
- V. Gentile, “Da S. Giovanni in Fiore a Monongah. L’esodo verso la morte nelle miniere”, in Calabria Migrante, Suppl. a Rivista Calabrese di Storia del ‘900 Icsaic, 1, 2013, pagg. 235 – 256 – http://www.icsaicstoria.it/wp-content/uploads/2018/03/CM_14_Gentile.pdf
Today the 111 years of the tragedy of Monongah in West Virginia (USA) occur, where 361 miners died, of which 170 were of Italian origin, most of them from Calabria, from Caccuri, San Giovanni in Fiore, Carfizzi, Falerna, Guardia Piemontese, Strongoli, Castrovillari , Gioiosa Ionica and San Nicola dell’Alto and Lago.
Among the victims are three of our countrymen Abbot (Abbate) Francesco of 42 years and his two sons Carlo Giovanni of 19 and Joseph of 14 years.
After many years the mining tragedy of Monongah is rebuilt, analyzed and revealed to the world thanks above all to the study of researchers and enthusiasts. These include Joseph Tropea, professor emeritus of George Washintong University, who continues his search for relatives of the victims. It is especially thanks to him if he managed to contact in Italy, children and grandchildren of those poor wretches.
Today, those who are forced to leave their country must be recognized as having contributed to the redemption of their land of origin from poverty, as well as to the progress of the host communities, through hard work, sometimes humiliating, but certainly a job done with dignity and dedication, work that has often allowed to achieve prestigious goals, high professionalism and success in all areas of social life often cost the sacrifice of their lives.
The human and social affair of Monongah should not, however, only be a reason for commemoration, but must represent the commitment on the part of all of us in the construction of a conscious citizenship and a culture of security that can avoid the repetition of similar tragedies in the workplace. Especially today that Italy has become land of landing and hope for so many people who come from the poorest countries in the world and who, today as then, seek better conditions of life.
The commemoration of the tragedy of Monongah must serve, especially to the younger generations, to reflect on the phenomenon of “emigration” and to recognize equal dignity and rights to those who, like so many of our emigrants, leave their land and family to build a better future.
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